Dai Salon parigini al Merzbau di Kurt Schwitters e oltre: un excursus su come lo spazio espositivo si sia evoluto nel tempo, di pari passo con l’evolversi del piano pittorico, dalla superficie limitata della tela fino all’appropriazione dell’ambiente circostante.
Carlo Scarpa affermava che “collocare correttamente un’opera d’arte implica che se ne comprenda la natura, il carattere, l’essenza più specifica”: e infatti aveva ragione. Visitando una mostra o esposizione d’arte ci accorgiamo che ciò che la caratterizza come mezzo espressivo non è il linguaggio verbale, bensì una trama di stimoli visivi e sensoriali – data dal rapporto creatosi tra opera e spazio – in grado di coinvolgere il visitatore. L’allestimento di una mostra, in generale, e il modo di appendere un quadro, in particolare, offre molte indicazioni su ciò che abbiamo davanti i nostri occhi e ci permette, in primis di fruire dell’esperienza e successivamente di essere in grado di fornire un’interpretazione o giudizio personale.
Si potrebbe dire che lo spazio espositivo è stato un luogo di trasformazione, un cambiamento avvenuto nel corso del tempo che procede di pari passo con lo sviluppo del piano pittorico.
In origine, all’interno dello spazio espositivo è posizionato il quadro da cavalletto con la sua cornice accademica: uno spazio come contenitore entro il quale si svolge l’azione. In questo caso il quadro indica a chi osserva dove guardare. Chi guarda a sua volta ha l’illusione che al di fuori del limite stabilito e incorniciato non esista nulla. Sono gli anni delle famose esposizioni all’interno dei Salon parigini della seconda metà dell’Ottocento, caratterizzate da una tappezzeria di capolavori, senza lasciare margini di spazio tra un quadro e un altro. Ai tempi il dipinto veniva pensato come entità autonoma: dall’interno il gioco di prospettiva rendeva possibile la lettura della scena, attraverso una ripartizione tra primo piano, piano intermedio e distanza; e dall’esterno era isolato da tutto ciò che lo circondava attraverso la cornice.
Poi arrivarono i dipinti di Caspar David Friedrich e di tutti i romantici, con i quali si comprende come la scena non sia assoluta ma un frammento di qualcosa di più grande, una parte d’infinito, una porzione di paesaggio. La scelta di decidere cosa includere o meno all’interno è dettata dalla linea dell’orizzonte che divide il cielo dal mare. Si inizia a prendere coscienza di ciò che esiste al di fuori della cornice. Come nella fotografia lo studio del margine si pone in primo piano in quanto favorisce al soggetto di compiersi da solo, permettendo di distinguere, per citare Roland Barthes, lo studium dal punctum, così nell’allestimento, le fotografie necessitano una separazione dal “vicino”, per distinguere ciò che è rappresentato nell’immagine, da ciò che questa suscita dal momento in cui agisce sull’osservatore.

Ma è con l’estetica della piattezza, autentica creazione dell’impressionismo, che si inizia a percepire una certa pressione sulla cornice. Il soggetto del dipinto ricade su una scelta che sembrerebbe casuale, l’assenza di tratti salienti al suo interno fa posare l’attenzione su un suo aspetto in particolare, anziché su una visione generale: il dipinto è una superficie ricoperta di colori e linee.
Il piano pittorico diventa invece nullo nel cubismo, i dipinti sono centripeti, si addensano verso il centro per poi dissolversi lungo il margine. Il piano dello spazio viene spinto in avanti, quasi a voler raggiungere quello dell’osservatore, il soggetto sembra soffrire del ristretto spazio a sua disposizione che diventa poco profondo per contenerlo e, a volte appare incollato alla superficie. Si avvertono i primi segni dell’avanguardia. Dall’oggetto artistico si sprigiona un flusso di energia: sono le cose a far nascere lo spazio e non il contrario. Non esiste più l’illusione di una realtà fittizia e si inizia a inglobare tutto ciò che ci circonda, compreso colui che guarda.
Possiamo dire, però, che è l’espressionismo astratto a compiere la rivoluzione, seguendo la strada dell’espansionismo laterale e liberandosi completamente della cornice. Il dipinto inizia così a trovare la sua “libertà” e a entrare in contatto con la parete. La galleria non è più contesto dell’arte ma si riempie di contenuto e le sue pareti da supporto passivo dell’arte diventano vere e proprie protagoniste. Nasce così il culto dell’allestimento e la figura del curatore diventa presenza indispensabile, che con l’aiuto degli artisti, espone le opere amplificandone la poetica, rendendo visibili correlazioni non del tutto ovvie, e soprattutto cercando di far comunicare le opere tra di loro senza spiegazioni.

Negli anni ’50 – ’60 le opere cercano di conquistarsi un piccolo “pezzo di territorio” all’interno dei grandi eventi espositivi, quali mostre collettive e biennali sempre più frequenti, allestite in luoghi d’eccezione. Arrivando agli anni ’80 si assiste a una vera e propria esplosione del fenomeno con l’aumento di eventi espositivi indipendenti dai luoghi museali. In questo periodo, centrale risulta essere la figura dello spettatore, che assolve allo stesso tempo al ruolo di attore e pubblico. Esso si trova ad osservare l’opera e nel contempo a occuparne lo spazio fisico, in cui questa si sviluppa. Fondamentale risulta essere a riguardo la serie Merzbau di Kurt Schwitters, che non potrebbe essere definita una scultura in divenire ma uno spazio autobiografico, riempito col tempo da oggetti in modo infinito e caotico, di cui fare esperienza. O l’installazione di Marcel Duchamp, 1200 sacchi di carbone, in cui l’artista trasforma il soffitto in pavimento e viceversa. Entrambe si reggono sull’idea che lo spazio espositivo è un’entità a sé, che si presta alla manipolazione dello spettatore.

Col passare del tempo, il museo diventa il luogo dove le opere si creano: era When the attitudes become form . Live in your head, del 1969 alla Kunsthalle di Berna, la mostra-laboratorio alla quale parteciparono artisti, con lavori differenti in stile e materiali, e la ricerca di nuovi modi di produrre arte fuori dal sistema del mercato, come leitmotiv.
Allo stesso tempo anche lo spazio della galleria diventa qualcosa di accattivante, non più asettico, inglobando altri luoghi come il bar, il ristorante, la camera da letto. È quello che succede nelle installazioni iperrealistiche di Duane Hanson o nelle performance in galleria di Rirkrit Tiravanija, nelle quali la quotidianità entra a far parte dell’arte e lo spettatore non riesce a distinguere la sua attività da quella dell’artista, divenuta ormai realtà tangibile ed esperibile.

In conclusione una menzione speciale va fatta a Christo & Jeanne Claude, duo artistico famoso per “impacchettare” i luoghi d’arte: l’opera si porta all’esterno del museo, coprendone e valorizzandone al tempo stesso i lati positivi e negativi. Una sorta di immagine-specchio di molte istituzioni di oggi, attente soprattutto ai propri guadagni, quando invece l’arte vorrebbe essere idea e azione fruibile da tutti, non soltanto qualcosa da possedere.
Martina Castiglia
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