Un romanzo di racconti. Un’esplosione lisergica. Un arcobaleno in decomposizione. Un giro di giostra mozzafiato. Un diamante sfavillante ma di buia notte. Una giungla urbana di personaggi eccentrici e paradossalmente (a)normali. Bim Bum Bam Ketamina è un oggetto misterioso che si appiccica addosso mentre si scorrono pagine di una bruciante attualità spietata: la nostra. Quella in cui siamo precipitati tutti, nel bene e nel male. Piaccia o meno. Inevitabile fare due parole con Claudia Grande, autrice di questo impasto narrativo viscoso, feroce, ironico, rifinito da schegge malinconiche e a tratti commoventi.
dettaglio di un lavoro di Shintaro Kago
F.A.: Devo confessarti che ho letto il tuo romanzo tutto d’un fiato e mentre venivo trascinato dalle vicende centrifughe che ruotano attorno al protagonista Roberto, mi continuava a tormentare una domanda: che sta succedendo? Nel senso, come siamo arrivati a tutto questo? E con “questo” intendo la frantumazione della realtà che per certi versi ci sovrasta e ci sfugge, ma allo stesso tempo ci ingoia e a tratti ci stritola. Un caos dirompente, a tratti anche molto stimolante e seducente. Questa sensazione che promana dalle vicende narrate che peso ha avuto nella gestazione del romanzo?
C.G.: È proprio così, quella che descrivi è stata proprio una delle sensazioni che mi ha fatto da guida nella scrittura del romanzo, perché da quando ho iniziato a concepire l’opera mi trovavo in un momento molto delicato della mia vita. L’incertezza era un po’ all’orizzonte ma percepivo che anche il mondo si stava muovendo in differenti direzioni, con un andamento schizofrenico, che caratterizza la nostra epoca. Da una parte i movimenti più progressisti che stanno emergendo in diverse parti del pianeta, dall’altro movimenti di estrema destra che prolificano e diventano sempre più determinanti nelle scelte politiche. Quale possiamo affermare sia la direzione che prenderà il futuro? E di che futuro si tratta? Viviamo un’epoca ricchissima di influenze, questo perché, dal momento che siamo interconnessi tramite il web, è come se avessimo un strano fenomeno di strabismo, che comporta un’attenzione sugli altri ma allo stesso tempo una focalizzazione su noi stessi. Iperstimolati da una bulimia di informazioni, l’unico modo per raccontare il presente era lavorare su una struttura frammentata. Una narrazione lineare non si addice ai nostri tempi e non è in grado di rendere la complessità che stiamo vivendo.
F.A.: Quindi più che un romanzo classico si tratta di un romanzo di racconti? Una narrazione multipla e centrifuga…
C.G.: Si tratta proprio di un romanzo di racconti. Nel confronto con la casa editrice è emerso che in effetti tutti i racconti hanno tematiche comuni molto forti ed inoltre tutti i personaggi vivono esperienze estreme e sembrano prossimi ad un’esplosione, ad un punto di rottura. Questa caratteristica è peculiare della nostra epoca, una sorta di elettricità prossima al sovraccarico, continue esplosioni di rabbia, di frustrazione, forse anche a causa di questo continuo e martellante susseguirsi di notizie relative ad eventi drammatici, dalla pandemia, alla guerra, alle crisi finanziarie. Quindi ho pensato bene che la forma frammentata, con una polifonia di voci e di storie connesse ad un protagonista che facesse da collante, sarebbe stata la migliore per rendere adeguatamente il nostro presente. È un po’ come se Roberto, il protagonista, stesse scrollando sui social e passasse da una vita ad un’altra. Attività che oramai conosciamo tutti molto bene.
La copertina di Bim Bum Bam Ketamina
F.A.: Direi che è giunto il momento di approfondire la grafica di copertina che trovo straordinaria. Ho sempre amato molto le maschere e l’immagine di copertina mi ha rimandato subito alla serie tv Watchmen, anche lì la maschera, anzi le maschere hanno un ruolo fondamentale, proprio come il racconto frammentato e polifonico. Ma nel caso del tuo romanzo il fluido mascheramento che appiattisce parte di un volto femminile, immortalato in un’espressione in bilico tra estasi e sogno sembra una soluzione perfetta. Mi ricorda ciò che affermava il pittore Francis Bacon di un suo trittico, in cui riconosceva che il colore sembrava scorrere fuori dal corpo del suo amante ormai privo di vita. Inoltre il bianco e nero che trapela attraverso questa emorragia di colori fluo incarna, secondo me, esattamente le stridenti contraddizioni del romanzo.
C.G.: Credo che l’immagine sia strettamente connessa al titolo Bim Bum Bam Ketamina. In un primo momento pensavo ad un titolo che facesse riferimento al mondo del lavoro, molto presente nel mio romanzo. In un secondo momento, ragionando con il mio editor, abbiamo deciso per un titolo evocativo che ti trasmettesse subito il mood dell’intera narrazione nel suo complesso. Quindi questa esplosione di colori è rappresentata onomatopeicamente dalla conta Bim Bum Bam che richiama anche l’infanzia, un certo tipo di tenerezza, ingenuità e dall’altra parte l’estasi di certi effetti delle droghe, per l’appunto la Ketamina della parte finale del titolo. Questa ambiguità e tensione emerge volutamente sia nel titolo che nell’immagine. È un po’ come gli opposti amore e violenza che spesso nelle storie bruciano in una stessa fiamma. Inoltre tutti i personaggi del romanzo sembrano inizialmente portare una maschera di normalità che col passare del tempo perdono per rivelare il dramma dello stare al mondo.
F.A.: Ad un certo punto il protagonista afferma che “siamo tutti lo specchio di tutti…” ma siamo anche uno specchio infranto di noi stessi e sembra che talvolta ci si perda proprio in anfratti reconditi di noi stessi che nemmeno immaginiamo. Questo smarrimento, questa erranza e diaspora interiore rende l’intero romanzo uno scavo intimo nei meandri di ognuno di noi.
C.G.: Questo è inevitabile, dal momento che oltre alle condizioni globali dobbiamo comunque fare i conti con i nostri traumi personali, con le nostre piccole e grandi sfide quotidiane. Io sono lo specchio della mia epoca ma allo stesso tempo la mia epoca è lo specchio della somma di tutti noi. Nel contesto social, molto presente nel mio libro, la relazione tra le persone sta profondamente plasmando la realtà. Questa disgregazione dell’io ha avuto un’accelerazione impressionante proprio con i social. Possiamo spiare le vite degli altri e ci presentiamo sempre di più per come potremmo piacere ed interessare agli altri. Quindi questa nostra versione di noi stessi per il pubblico apparentemente ci mette in contatto con gli altri, ma allo stesso tempo ci allontana dalla percezione della vera natura di noi stessi. Siamo delle monadi pirandelliane iperconnesse ma in una dimensione di solitudine digitale molto pericolosa. Credo che possa essere rischioso perdere il controllo di questa rifrazione illimitata.
Still dal film Spring Breakers del 2012
F.A.: E poi emerge dal tuo romanzo un certo tipo di Italia, di provincia, certe idiosincrasie, certi stereotipi, certe storture molto nostrane.
C.G.: Sono partita proprio da una considerazione che riguarda una parte della letteratura italiana contemporanea che racconta l’Italia in maniera molto stereotipata. La provincia, ad esempio, viene ritratta come uno spazio deprimente da cui scappare oppure una sorta di paradiso idilliaco. Non mancano poi le relazioni familiari complicate, il degrado del sud, le inevitabili battaglie contro la malavita. Ma l’Italia non è solo questo. C’è un’italianità poco battuta, quella che io definisco per certi versi trash, ossia il grottesco che è allo stesso tempo patinato e imbarazzante. La dipendenza dalla televisione, le tendenze social, l’imposizione della propria idea e la riluttanza ad ascoltare il prossimo, la periferia come tensione tra il desiderio di alternative e bisogno di radici e certezze. Questi sono caratteri (dell’italiano medio, se vuoi) che mi hanno sempre affascinato e che volevo mettere in luce.
F.A.: Lo stile del tuo romanzo è molto ricercato. Ho notato che utilizzi in maniera molto personale e interessante la punteggiatura, il dialogo, le parentesi. Ma anche il ritmo (sin dal titolo) mi sembra che sia la cifra dell’intera narrazione che scorre senza appesantire il lettore.
C.G.: È proprio vero. I motivi sono due. Il primo riguarda la mia passione per la musica, per cui spesso il suono di una parola, di una frase è importantissimo, al punto talvolta di impormi scelte lessicali molto specifiche in chiave musicale. Il secondo invece è connesso alla mia parte ansiosa che mi spinge a procedere per continui flussi di domande, dubbi, idee, processi che complicano sempre l’andamento della mia vita e di riflesso della vita dei miei personaggi. E’ un po’ come se ci fosse sempre qualcosa in agguato dietro l’angolo. Tutto questo impone un inevitabile ritmo alle storie che racconto. Si tratta di un ritmo che tra l’altro ritrovo anche negli autori che amo come Bret Easton Ellis, Chuck Palahniuk, Cormac McCarthy e David Foster Wallace, il mio preferito.
F.A.: In conclusione… i volantini? Esistono ancora in giro per le città?
C.G.: Direi proprio di sì, Roberto (l’uomo in affitto) continua a girare per Torino invadendola in ogni dove con i suoi volantini e questo mi piace tantissimo!
Fabrizio Ajello