A tre anni dall’inaugurazione del primo spazio espositivo e dopo la chiusura forzata dovuta alla pandemia, Palazzo Bonaparte riapre al pubblico con due percorsi espositivi di altissimo livello prodotti da Arthemisia: Bill Viola. Icons of Light, omaggio al più importante tra gli esponenti della videoarte, e Jago. The Exhibition, la prima grande mostra antologica dedicata allo scultore italiano capace di unire tecnica artistica e comunicazione digitale.
Bill Viola, maestro della videoart
Per chi conosce l’arte contemporanea Bill Viola non ha bisogno di grandi presentazioni. Pioniere della videoart, l’artista statunitense indaga da quasi mezzo secolo l’essere umano e il suo rapporto con l’ambiente e con la natura attraverso le immagini in movimento.
La luce, il tempo, l’acqua e lo spazio sono i temi fondamentali del suo lungo percorso artistico e, non a caso, costituiscono i nuclei centrali della mostra Icons Of Light, in corso nelle sale di Palazzo Bonaparte a Roma fino al 26 giugno.

L’allestimento, curato da Kira Perov e prodotto da Arthemisia in collaborazione con il Bill Viola Studio, è un’immersione a tutto tondo nell’immaginario dell’artista ma, al tempo stesso, si propone come un invito a compiere un’esperienza fuori dall’ordinario. Senza fretta, in silenzio, penetrando nel buio, reale e metaforico, che avvolge le opere.
La fruizione delle opere di Viola richiede una qualità attentiva che sviluppiamo sempre meno, a causa del gigantesco flusso di immagini digitali che quotidianamente ci travolge. Lo sforzo dovuto al mutamento d’attitudine nello sguardo è altamente ricompensato dall’artista che, con i suoi lavori, stimola profondamente la nostra capacità appercettiva, ossia la facoltà di connettere in modo consapevole percezione ed esperienza.
Iconografie eterne
Il viaggio comincia con un tuffo invisibile che è l’azione centrale di uno dei lavori storici di Viola, definito dal critico Jean-Paul Fargier come il manifesto più radicale dell’arte elettronica: The Reflecting Pool. Si tratta di un video di 7 minuti appena in cui il tempo si dilata, anzi, si propaga proprio come fanno i cerchi sulla superficie dell’acqua. Un uomo (Viola stesso) sta in piedi al bordo di una piscina circondata dal bosco: l’immagine si sdoppia, si autosospende, si incanta. E in questo incanto Viola condensa l’intreccio degli opposti che permeano l’opera: essere umano e natura, acqua e terra, reale e virtuale, passato e presente.
Quello degli elementi naturali, assieme all’eredità storica delle arti visive, è un tema particolarmente caro a Bill Viola: l’allestimento espositivo propone alcuni tra i più significativi lavori dell’artista a cominciare dalla Martyrs Series, composta da quattro video verticali in cui i performer, testimoni dei valori fondanti nella cultura occidentale, vengono travolti e infine sovrastati dalla forza ineluttabile della morte.

Il sacro e il perturbante si manifestano a più riprese e, in particolare, sembrano implodere in Observance, opera che pone al centro dell’indagine artistica il dolore umano. L’artista utilizza gesti e sguardi per comporre una sinfonia lenta e magnetica di immagini in movimento che ipnotizza chi osserva.
Il viso, concepito come soglia tra interno ed esterno, anello di congiunzione tra interiorità e convenzione sociale, è il luogo dell’espressività umana che l’artista indaga in Unspoken (Silver&Gold) e che si espande ulteriormente, in tutta la dimensione corporea, nell’opera più nota di Viola, The Greating (1995), ispirata alla visitazione del Pontormo che trasforma letteralmente il momento in eternità.
Carolyn Carlson incontra Bill Viola
Definita dalla critica come la “poetessa della danza”, Carolyn Carlson ha molto in comune con Bill Viola: l’oscillazione costante tra Oriente e Occidente, la capacità di sperimentazione e contaminazione tra i linguaggi, la ricerca decennale attorno agli elementi della natura e all’acqua, in particolare.
Giovedì 23 giugno la coreografa e danzatrice statunitense ha condotto il pubblico in una visita sui generis della mostra allestita a Palazzo Bonaparte, attraverso una performance unica per 30 spettatori alla volta.
Jago, The Social Artist
Al secolo Jacopo Cardillo, classe 1987, Jago non è solo un artista abilissimo nella tecnica e interessante nei contenuti ma segna, a tutti gli effetti, una nuova frontiera dell’arte contemporanea e della figura stessa dell’artista.
Il suo modo diretto e coinvolgente di comunicare attraverso i social media ha conquistato centinaia di migliaia di follower. Jago racconta, mostra, esplicita il suo lavoro in modo semplice e diretto: condivide senza banalità, spiega senza didascalie. E la sua capacità attrattiva si espande ben oltre la digital life: Il figlio velato, la scultura realizzata a New York e successivamente trasferita nella Cappella dei Bianchi, adiacente alla Basilica di San Severo fuori le mura di Napoli, è stata accolta con grande entusiasmo dai giovani del rione Sanità.
Qualcosa di simile è accaduto anche a Roma nel momento della presentazione della Pietà presso la Chiesa di Santa Maria in Montesanto a Piazza del Popolo. Entrambe le opere sono presenti nella mostra dedicata allo scultore, in corso a Palazzo Bonaparte fino al 3 luglio.

La scultura come lingua viva
Il percorso espositivo a cura di Maria Teresa Benedetti raccoglie per la prima volta tutta la produzione artistica di Jago, dai lavori giovanili nati dai sassi raccolti sul greto di un fiume (Memoria di sé, Excalibur) alle opere più recenti che lo hanno reso famoso, come Habemus Hominem e Venere.
I rimandi all’arte rinascimentale sono più che evidenti: la stragrande maggioranza delle figure tridimensionali di Jago richiamano i capolavori presenti in qualsiasi manuale di storia dell’arte. Opere diventate a buon diritto parte integrante dell’immaginario collettivo italiano e non solo a cui l’artista attinge senza remore, traducendo il presente in nuove forme marmoree.

Michelangelo, Giambologna, Bernini riecheggiano fiammeggianti nei lavori dell’artista frusinate che raccoglie così il testimone della tradizione, concedendosi il privilegio di modificarne i significati più profondi.
La scultura diventa lingua viva che racconta la società contemporanea attraverso un vero e proprio dialogo tra l’artista e il suo pubblico.
Cristina Cassese