Ci sono Donne destinate a lasciare un segno, alcune un tratto di pennello. Ci sono Donne destinate a scrivere un romanzo, alcune a viverlo. Ci sono Donne destinate a cercare un simbolo, alcune ad esserlo.
Siamo a Roma, in un caldo 8 luglio di un lontano 1593, quando una bimba, primogenita di sei figli, nasce da Prudenza Montone, che, purtroppo, morirà pochi anni dopo, e dal pittore pisano Orazio Gentileschi.
Il suo nome è Artemisia: la sua vita sarà leggenda, la sua arte sarà Storia.
Fin dall’infanzia, la celebre pittrice viene educata al disegno e alla tecnica di ispirazione caravaggesca: le sue piccole mani si intingono nel nero dell’abisso e nel rosso della passione e, infine, si mondano nel chiarore del bianco che tutto squarcia, come la lama di un angelo vendicatore.
Il clima culturale e sociale degli esordi del secolo XVII non è facile da etichettare, perché le contraddizioni che lo attraversano sono molteplici e si palesano generando una sofferta dicotomia fra ombra e luce che ben si svela nella produzione figurativa del periodo.
I tempi del Concilio di Trento non sono così lontani da essere un ricordo, e l’atteggiamento conservatore mantenuto dalla Chiesa è evidente anche nel ruolo di sommo committente. Le immagini religiose sono chiamate, pertanto, ad assolvere ad un compito didascalico definito con precisione, ossia devono rifuggire la sensualità esplicita ma, al contempo, sedurre l’astante, imprigionandone, così, l’attenzione.
Inoltre, è proprio nel corso del Seicento che iniziano a farsi strada le teorie che ergono la conoscenza empirica e razionale quale supremo strumento di indagine del reale, fino alla teorizzazione, da parte di Galileo Galilei, del metodo induttivo sperimentale.
Da tale egregia fusione fra il sacro e il profano ha origine lo stile barocco, nutrito di soggetti macabri e truci, epifanie delle paure di uomini che sanno di non essere più al centro dell’universo.
Artemisia Gentileschi obbedisce ai canoni pittorici dell’epoca non solo in qualità di artista, ma anche di donna dal vissuto complesso e traumatico.
Fra le pochissime a non essere asservite al ruolo femminile stereotipato, che si esplicita nella sola cura del focolare, Artemisia riesce a far emergere il proprio indiscusso talento diventando, però, costante vittima della propria storia.
La sua figura fu, infatti, sempre associata alla scabrosa vicenda della violenza sessuale che subì all’età di quindici anni e della denuncia che ne conseguì, nel 1612. Sottoponendosi perfino allo schiacciamento dei pollici per confermare la veridicità delle sue accuse, la pittrice fu presa come esempio muliebre dal, di molti secoli successivo, movimento femminista.
Fu il suo insegnante di prospettiva, Agostino Tassi, ad abusare di lei, ancora fanciulla, e ad ingannarla con fallaci promesse di congiungimento ufficiale.
Artemisia, successivamente, convolò a nozze, ma non con lo stupratore, secondo l’usanza dei tempi che promuoveva il “matrimonio riparatore”, ma con il fiorentino Pierantonio Stiattesi.
Tuttavia, il suo dramma mai fu elaborato, ma serbato e nutrito in una solitudine di dolore in cui nessuno poteva dare il giusto conforto. Alcuni anni dopo, perfino il padre, Orazio, riprese i rapporti con Agostino, dimentico del terribile accaduto.

I suoi ritratti autobiografici la contraddistinguono, pertanto, per la palma, attributo delle martiri, con cui la pittrice, violata nella sua castità, si identificava.
L’opera che la ha resa più celebre e che la caratterizza è, senza dubbio, “Giuditta decapita Oloferne”, dipinta intorno al 1620 e oggi conservata nella Galleria degli Uffizi.
«Rimase solo Giuditta nella tenda e Oloferne buttato sul divano, ubriaco fradicio. […] Avvicinatasi alla colonna del letto che era dalla parte del capo di Oloferne, ne staccò la scimitarra di lui; poi, accostatasi al letto, afferrò la testa di lui per la chioma e disse: “Dammi forza, Signore Dio d’Israele, in questo momento”. E con tutta la forza di cui era capace lo colpì due volte al collo e gli staccò la testa». Giuditta 13, 2-7
L’eroina è una donna bella, sensuale, elegante.
Gli occhi bruciano di intelligenza e passione.
Le vesti sono sontuose e lucenti.
I gesti sono gravi e non tradiscono incertezza.
Artemisia è una donna da ammirare, non da disprezzare, e Giuditta è il suo alter ego, nelle fattezze e nella dignità.
La donna ritratta, una delle più affascinanti figure che costellano la Bibbia, è colta nell’atto di tagliare la testa al nemico dei Giudei, il condottiero del popolo Assiro che assediava la città di Betulia. A lei viene tributato l’onore di averlo ingannato attraverso la seduzione, pur senza concedersi fisicamente.
Il volto, riverso all’indietro, del nemico morente ricorda il viso di Agostino Tassi. Giustizia è compiuta, nel tribunale sacro dell’Arte.
Si tratta di un’opera magnetica, in cui perdersi, mossi da angoscia, per poi ritrovarsi nel punto focale, nel movimento fiero e catartico di quelle mani di donna nelle quale molte si sono ritrovate e si ritrovano, quali vittime che hanno metaforicamente ucciso il proprio carnefice, diventando eredi di una creatura indimenticabile: Artemisia.
“Questa è donna che in ogni gesto vorrebbe ispirarsi a un modello del suo sesso e del suo tempo, docente, nobile; e non lo trova. Una immagine con cui combaciare, sotto il cui nome militare: tanto occorre ad Artemisia sui trentatré anni, un’età in cui il costume e i gusti del mondo cominciano a persuaderla, a incantarla. Ma non è principessa, non è pedina, non è forese né mercantessa, non è eroina né santa. E neppure cortigiana”. Anna Banti
Emma Fenu
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