Una nuova rubrica di Memecult dedicata a tutte le volte che nella vita di ogni giorno ci sembra di scorgere qualcosa già visto nell’arte: a chi non è mai capitato di guardare particolari della realtà e pensare a un dipinto di qualche grande artista? L’arte incontra così il ricordo di una quotidianità considerata a torto piatta, partendo dal presupposto, preziosissimo, che vedere (anzi, guardare) e pensare (anzi, immaginare) sono un tutt’uno.

Così, da un infuocato e placido pomeriggio d’agosto tra i sassi della spiaggia adriatica, si può iniziare il viaggio che conduce fino a Parigi, a riscoprire Mirò e Kandinsky, le cui tele ci immaginiamo sospese, più che appese, negli spazi del Beaubourg.
Joan, da bravo spagnolo, è capace di dipingere con seriosa ludicità un’opera come Bleu II, che fa parte di una serie di 3 dipinti, tutti di analogo soggetto e titolo (cambia solo il numero progressivo) e tutti al Centre Pompidou, ideati tra il dicembre del 1960 e il marzo dell’anno dopo, frutto di un lungo lavoro intellettuale che ha richiesto al pittore silenzio e concentrazione massime per mesi (« E’ come prima della celebrazione di un rito religioso, come un’iniziazione. Voi sapete come si preparano gli arcieri giapponesi alle competizioni? […] Inspirazione, espirazione, inspirazione. È la stessa cosa per me» disse lo stesso Mirò).
Quei puntini neri sulla tela non sono macchie ma sassi che sfilano in cielo e fanno tornare alla mente l’aneddoto illuminante raccontato da Penrose su Mirò:«Un amico di Mirò una volta ha detto “quando io raccolgo una pietra, è una pietra; quando Mirò raccoglie una pietra, è un Mirò”». Ecco cosa vuol dire essere circondati dall’arte della realtà – se così vogliamo chiamarla – che è nient’altro che la parte buona di noi stessi. Mirò è uno di quelli che ha insegnato agli uomini a guardare. Questo fa sentire autorizzati, oltre che incoraggiati naturalmente, a vedere in un filo sospeso nel cielo estivo il primo input per il viaggio nei meandri del correlativo oggettivo.
Gli aquiloni della fotografia scattata sulla riviera adriatica, armoniosamente in fila come quiete presenze animali, sono eroicamente – perché quasi sempre inutilmente – portati in giro tutto il giorno, avanti e indietro sulla spiaggia, da uno di quegli innumerevoli venditori ambulanti del Marocco o del Bangladesh, in jeans e caftano, che vediamo affollare gli stabilimenti balneari delle nostre ferie al mare.

Ora, guardando questi aquiloni, l’impressione che se ne ricava è quella di una moltitudine di simpatiche creature in tutto simili alle “forme biomorfe” elaborate dalla lucidità caleidoscopica del russo-tedesco Vassily, la cui meditata ricerca artistica, dopo il 1930, diventa ancora di più evasione dalla classica normalità. Si capisce, la guerra incombeva sull’Europa e nessuno si sentiva al sicuro dentro casa sua; la rivoluzione dell’arte astratta però doveva proseguire e Kandinsky non poteva permettersi di fermarsi, lui che era arrivato alla pittura superati i 30 e solo dopo gli studi di legge (anche se nel frattempo si era anche cimentato nello studio della musica, dell’arte popolare e dei culti primitivi). L’opera Bleu de ciel è stata realizzata dall’artista pochi anni prima di morire, e per i suoi mostri buoni ha preso ispirazione dalle antiche tappezzerie che aveva avuto l’occasione di vedere a Parigi, dove si era stabilito nel 1933.
Forse che gli intensi azzurri estivi della nostra realtà sono decorati da questi embrioni volanti e da simili cellule colorate e quadrupedi, in movimento estatico nel cielo, a descrivere traiettorie inesistenti? Certo che no, ma se è vero che è la fantasia a prendere spunto dalla realtà e non il contrario, i conti tornano. Ed è così che la fotografia senza pretese di un pomeriggio al mare, a guardare il cielo blu reale e gli aquiloni zoomorfi, diventa occasione di riscoperta di opere d’arte indubitabilmente comunicative.
Enrico Crispolti parla di «lirismo intensissimo», non meno che «ironico», riferendosi ad uno dei più riusciti “ready-made” di quell’impostore di Duchamp. Con la sua “Tu m’ (Tav. VII)” del 1918 (immagine n.3) – periodo in cui il pittore opera tra Parigi e New York – egli spalanca le porte alle libere associazioni d’idee, come se fosse davvero possibile unire tutti gli spunti del quotidiano, simbolici, materici ed istintivi, per fare dell’arte un processo di selezione automatica di bellezza. Ora, al di là dell’esasperata corrosività del Dadaismo, ribelle ed autodistruttivo, di cui Marcel è uno dei padri fondatori, la lezione da imparare può essere racchiusa nel senso attribuito da Tristan Tzara (altro esponente di spicco del movimento Dada) al concetto di «semplicità attiva» poiché, «misurata sulla scala dell’Eterno, ogni azione è vana. […] Ma se la vita è una pessima farsa […] proclamiamo l’arte l’unica base d’intendimento». E così sia. È l’incostante, poetica forza del reale.
Lorenza Zampa
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