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Arte e Realtà #4 | Il “parco industrial” che omaggia Léger

L’artista di questo mese è il francese Fernand Léger (1881-1955), omaccione sinceramente appassionato dei congegni meccanici e ricreatore visivo di giochi industriali a cui assegna il compito di parlare apertamente del (e al) presente, un’epoca dominata dalle macchine non meno che dai loro costruttori.

Le macchine, il movimento, la pesantezza, la freddezza e l’operosità accelerata, il rumore e il cambiamento rigido; materiali duri, resistenti ma muti, e che non mutano. Questi i punti fermi del pensiero artistico primo novecentesco, che pure si presenta molto più problematico di così. Quello che qui ci interessa però, al di là delle inaudite semplificazioni, è istituire ancora una volta un collegamento visionario e insieme concreto fra un’opera d’arte e il suo “corrispettivo” nella realtà, per così dire.

Fig.1

Stavolta ci troviamo ad Ancona, al parco della Cittadella (fig.1), aperto circa quarant’anni or sono e morbidamente adagiato sul colle Astagno, accanto alla cinquecentesca e imponente struttura militare difensiva, conosciuta per l’appunto come Cittadella (o Fortezza). Lo spirito “industrial” di qualche originale progettista ha voluto che nel parco fossero disposti dei giochi per bambini come quelli delle immagini qui inserite, che con i dipinti di Léger hanno molto in comune. Li si potrebbe anzi considerare figli suoi.

Erede del cubismo, debitore del modernismo ma non del futurismo, il “tubista” Léger (fig.2) così soprannominato bonariamente dai suoi contemporanei, è un pittore artigiano che ama le tecniche artistiche tradizionali, come l’affresco e l’arazzo, ma che osteggia l’arte rinascimentale – troppo intellettualistica per uno come lui, che sa vedere più poesia nelle culatte dei cannoni che nelle opere conservate nei musei –, scegliendo piuttosto di dipingere esseri umani meccanizzati, che si improvvisano acrobati su scale e impalcature dai colori “Mondrian-iani”.

Fig. 2

Eppure, c’è chi ha definito la sua operazione estetica come «una sorta di elementare umanesimo» (Mario De Micheli), a cui va il merito di aver tentato di costruire un ponte tra macchine e umani. È per quel suo mettere al centro di tutto l’«istanza affermativa» (De Micheli) che si può parlare di umanesimo quando si analizza Léger. E di sguardo metallico ingentilito da una sorta di primitiva, poderosa gaiezza.

Dove c’è la macchina ci sono gli operai – anche se non si capisce bene in che rapporto stiano gli uni con l’altra, l’età della tecnica in fondo è appena iniziata – e a quest’ultimi Léger si sente molto vicino, proclamandosi amico di «minatori, terrazzieri, artigiani del legno e del ferro». Li va persino a cercare nei cantieri e nelle fabbriche, come quando ha portato le sue tele nella sede delle Officine Renault, per farle vedere ai lavoratori in pausa pranzo e sapere cosa ne pensassero. E cos’è questo se non umanesimo moderno?

Fig. 3
Fig. 4

È un gioco che riporta alla mente le fotografie emblematiche – grazie alle quali abbiamo creato un ulteriore parallelismo – scattate all’incirca negli stessi anni in cui Léger propone al mondo la sua visione pittorica. Sono immagini di operai appesi alle liane della moderna jungla urbana, con manovali sul ponte di Brooklyn (fig.3) o a riverniciare la Tour Eiffel o, ancora, intenti a giocare a golf sopra lamiere sottilissime e ad altezze vertiginose (come in “Tee time”, fotografia scattata da Charles Clyde Ebbets); alcuni improvvisano anche delle gare automobilistiche sopra il tetto della loro fabbrica, come si vede nello scatto del 1923 che ritrae gli operai della FIAT (fig.4). Propaganda e divertimento, gli albori della pubblicità.

Ma torniamo a Léger: nelle sue opere, dominate da griglie piatte di linee orizzontali e verticali che si intersecano, ordinate, si vedono spessissimo scale a pioli (fig.9), corde che come vermi si insinuano fra le travi dei cantieri, nuvole che sembrano liquefarsi come acciaio fuso e scenari vacanzieri allegramente squallidi e proletari, come in “Le campeur” (1954, fig.5). Qui il paesaggio è puro fondale, non spazio vero e proprio da vivere; tutto è compresso, i volti quasi felici delle figure assomigliano alle fantasiose ceramiche modellate e dipinte da Picasso, mentre l’albero sulla destra imita le gru edili a torre.

Fig. 5
Fig. 6

 

Le biciclette, altro elemento ricorrente dell’immaginario di Léger, sono snodate e fluide, si infilano e vengono maneggiate come fossero nunchaku: lo si vede bene nell’olio su tela, oggi al Moma, dipinto nel 1945 (“La grande Julie”, fig.6) dopo il ritorno in Francia dagli USA, dove Fernand era fuggito durante la guerra.

Quel suo «vigore quasi popolaresco», che gli fa produrre immagini che «mantengono qualcosa del cartellone e della sagra popolare insieme» (De Micheli), si combina con una calcolata impassibilità compositiva – che annienta emozioni, sospiri e fisionomie – al fine di convertire «la secchezza», come lui stesso la definisce, delle opere di Ingres e David (che lui ama in quanto «anti-impressionisti») in freddezza eroica e interrogante. Eroica perché scopo ultimo per lui è sempre creare «un’arte diretta, comprensibile a tutti, senza sottigliezze», conscio del valore che ogni domanda reca con sé. Senza retorica ma con agghiacciante dignità.

«Heroism of modern life» si legge su un comunicato del Moma scritto in occasione di una mostra su Léger, ma non senza senso critico (perdonate l’allitterazione) poiché per lui la società è tutta da indagare e gli esseri umani restano individui interessanti, soggetti onnipresenti delle sue opere. Ha infatti avuto modo di dire che «l’uomo moderno registra impressioni cento volte di più dell’artista del XVIII….La condensazione del quadro moderno, la sua varietà, la sua rottura delle forme è il risultato di tutto ciò».

Fig. 7

L’avanzamento delle macchine, ci dice tra le righe Léger, non è qualcosa da mitizzare e osannare, come fanno Marinetti e gli altri, né un dato di fatto da nascondere o demonizzare con un tipo di pittura astratta. Le evasioni liriche di un Klee o di un Mirò non lo interessano, vuole fare i conti con la nuda realtà e riconoscere l’importanza della meccanica delle cose. È indubbiamente più facile convivere con le macchine quando esse, oltre ad essere strumento di lavoro, diventano occasione ludica.

Un po’ come hanno imparato a fare gli artisti della Mutoid Waste Company (fig.7), a cui forse Léger si sarebbe volentieri unito.

Fig. 8

Ecco quindi che i giochi per bambini del parco della Cittadella non fanno che proclamare la riappacificazione tra tubi, lamiere, rami e radici, tra natura e geografia antropica, diventano un mezzo per pensare alle macchine in maniera diversa, proprio come faceva Léger, il pittore dell’«araldica meccanicistica» (Argan).

 

Fig. 9

(N.d. a.: nella fig.8 in alto è stata inserito l’olio su tela di Léger datato al 1951 e intitolato “Les constructeurs”, ora a Mosca, al museo Pushkin di Belle Arti; in fig.9 invece, l’opera “L’acrobate et sa partenaire”, dipinta nel 1948 e conservata alla Tate Modern di Londra).

About the author

Lorenza Zampa

Nata e cresciuta nelle Marche, si forma a Ravenna e Firenze, laureandosi in Storia dell’Arte Moderna. Autrice della raccolta poetica “L’evidenza arresa” (Maremmi Editore), disegna, suona chitarra e batteria e ama la compagnia di musei, libri e film.

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