Un’Italia che fa e un’Italia che non sa cosa fare. Aspetto l’immunità di gregge, aspetto che il pastore riapra il recinto. Aspetto che i cani svoltino l’angolo per ributtarmi nell’erba, aspetto la notte perché le notti si assomigliano tutte, aspetto il sole perché ne ho bisogno. Dalla guerra di movimento mi ritrovo in una trincea a distanza di sicurezza dal mio amico che da un momento all’altro potrebbe trasformarsi in nemico. La vita si riscopre fragile, la terra si risveglia inospitale, penso alla “Cosa” di Carpenter, a “La Sentinella di Clarke” e a tutte le stronzate che mi sono letto e visto in questi anni. Nel frattempo mi imbarazzo dell’Italia che canta e suona dal balcone, mi stupisco dell’autocelebrazione del modello italiano, una brutta copia di quello cinese che però ha funzionato. Penso al fronte, quello vero, alla prima linea, agli ospedali ai medici e infermieri senza mascherine perché è sempre la stessa storia, c’è un’Italia che fa e un italia che non sa cosa fare.
Sono quasi le 18 e il pastore ci dirà quante di noi ieri sono morte, quante sono guarite e quante potranno tornare a casa. E se la primavera è alle porte, l’immunità di gregge intanto tarda ad arrivare.
Massimo Tonietti, Firenze
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Distanti. Ho trascorso giorni in quasi-totale isolamento e, escludendo i momenti in cui mi veniva voglia di scambiare quattro chiacchiere con l’armadio o fare i complimenti al mestolo per il suo bel colorito, ho avuto un po’ di
tempo per riflettere. E inevitabilmente il pensiero si è posato lì. I miei nonni sono nati e cresciuti a Milano con i fischi delle bombe nelle orecchie, la polvere dei calcinacci delle case nelle narici, lo spettro di una città che doveva ripartire da zero ben impresso nelle cornee. E ce l’hanno fatta. Mio nonno è mancato a 93 anni, invece mia nonna è ancora arzilla, guarda le crime series alla tv e non sa rinunciare al vino, al fumo e alla cucina prelibata di Vera. Purtroppo non ha nessuna voglia di uscire di casa (anche se col suo vaporoso ciuffo argentato farebbe ancora girare la testa ai più eleganti sciur meneghini) perché in fondo dopo avere visto gli orrori della guerra, plasmato l’educazione di tanti giovani, vinto diversi tornei di bridge, fatto amicizia con un Koala di 10kg ed essere stata multata per eccesso di velocità su una qualche autostrada nordamericana, a 92 anni suonati chi glielo fa fare?
Questo isolamento semi-forzato mi ha portata se non altro a cercare di comprendere un po’ il passato, di
immedesimarmi nelle storie di persone di altre epoche cui erano limitate o negate le proprie libertà. E il solo
pensiero mi ha stordita, come il sapore schifoso di una medicina. Una medicina necessaria. E così, anche se il
mio corpo sta subendo una simpatica metamorfosi che mi farà presto assomigliare al pokemon Ditto, forse
alla fine di tutto mi sentirò un po’ migliore, un po’ più vicina a quelle storie che a noi oggi sembrano così
distanti. Distanti, come la casa del mio amore a 15km da Milano ma che sembrano un milione. Distanti, come
quel bellissimo negozio di libri in cui non sono mai entrata, che ha le serrande abbassate da una settimana e
che forse da questa crisi non si riprenderà.
Michela Bassanello, Milano
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Breve storia di coraggio, tra Aids e Covid19. C’era una volta una donna di nome A che come lavoro faceva l’infermiera per il reparto di malattie infettive dell’ospedale X di Palermo. Nello specifico, lavorava nel reparto dei malati affetti da HIV o AIDS. A ha sempre assistito con grande professionalità e dedizione i degenti di questo reparto molto delicato e pericoloso, senza mai risparmiare una parola di conforto o un abbraccio per chi stava soffrendo. Sembrava quasi che A non avesse paura di questo virus tanto mortale quanto di facile contagio e che la sua energia nel “prendersi cura” dei malati, anche negli ultimi momenti di vita, fosse inesauribile. Anche A, però, è affetta da AIDS. Ormai da tantissimi anni combatte una guerra per la vita ma anche una battaglia contro l’ignoranza e il pregiudizio. Chi meglio di lei, che convive ogni giorno con questa malattia, può capire i degenti di quel reparto? Chi meglio di lei può occuparsene senza la paura di un contagio? Lei che con amore e coraggio non ha lasciato soli, neanche nel momento della morte, tutti quei malati abbandonati dalle famiglie perché omosessuali o tossicodipendenti. Poi un giorno arriva il Corona Virus, una sorta di cugino sconosciuto dell’AIDS e A viene spostata, per mancanza di personale, nel reparto dedicato a COVID-19. Lei, come tutti gli altri, si adopera per fare tutto il possibile con turni massacranti e con una scarsa di disponibilità di attrezzature di protezione. Passano i giorni e i contagiati aumentano e ad A viene chiesto se vuole lasciare quel reparto data la sua condizione di immunodepressa ma A rifiuta perché i malati sono troppi e il personale troppo poco e lei, infermiera con un’esperienza di tantissimi anni nel reparto di malattie infettive, è una figura che in questo momento non può fermarsi. Allora A dimentica la sua malattia, dimentica gli anni di esclusione sociale nel quale vivevano gli affetti da HIV, dimentica una vita nella quale ha dovuto nascondere la sua malattia a causa del giudizio di una collettività impaurita e decide di proseguire la sua lotta per la vita, combattendo con coraggio un’altra durissima battaglia. A è una mamma, è una nonna e come lei tutti i medici ed i tecnici ospedalieri che in questo momento stanno rischiando la vita, affrontando una guerra per l’intera collettività. È a loro che dedico questo mio pensiero scritto, perché sarà solo per questi uomini e donne coraggiose se questa storia iniziata con C’era una volta potrà concludersi, come tutte le favole, con un lieto fine!
*Quella che ho voluto raccontare è la storia di una delle più grandi amiche di mia madre, pertanto nel rispetto della privacy non sono stati inseriti nomi e specifiche.
Sasvati Santamaria, Palermo
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