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Appunti dalla quarantena #1

L’atmosfera di sospensione in cui tutta Italia è immersa a causa dell’emergenza Corona Virus, porta con sé riflessioni, contraddizioni e cambiamenti di un “tempo nuovo” che è ancora tutto da decifrare. Abbiamo chiamato a raccolta le nostre penne (e oltre!) e chiesto se volessero condividere brevi pensieri sulla condizione che stanno vivendo, nelle tante sue sfumature. Ecco allora alcune “pagine di diario”, che pubblicheremo periodicamente in queste settimane: abbiamo uno spazio a disposizione – il nostro sito – e vogliamo in questo momento renderlo utile per questo fine. 
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Coscienza collettiva cercasi. Che la generazione dei millennials non avesse una spiccata coscienza collettiva si sapeva già. Poca (pochissima) affezione sincera alla storia, alla politica, alla res-publica, al bene comune. Trovarci d’improvviso, così da vicino, a dover fare i conti con questa mancanza ci ha destabilizzato, forse tanto quanto il rullo dell’emergenza sanitaria nazionale. Ha fatto tremare lo sgabello su cui stavamo seduti, convinti fosse una poltrona di velluto, ci ha riempiti di un vuoto acuto (che in modo beffardo lascerà un segno più profondo di un momento di serenità), ci ha costretto a uscire dalla nostra comfort zone per sperimentare realmente cosa significa rinuncia personale per un bene più grande, quello della comunità e della collettività. Per una volta non abbiamo trovato scappatoie individualiste, ci siamo immersi tutti nello stesso dolore, anche chi non è stato colpito direttamente dal contagio. Lo stiamo facendo per responsabilità civile e nel rispetto di chi sta pagando il conto salato di questa situazione. Non è (solo) colpa nostra se non sapevamo e non conoscevamo, noi siamo figli della nostra epoca. Punto. Ma d’ora in poi anche noi sapremo cosa vuol dire avere una coscienza collettiva e magari continueremo a coltivarla, insieme.

[Nel 2019 sono diventata mamma di Eva Sara e da oggi so in modo nitido qualcosa in più di cosa vorrò insegnare a mia figlia].

Serena Vanzaghi, Milano

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marzo 2020 | #acasatuttobene. Bisognerebbe cercare di oggettivare il più possibile la scrittura, così diceva il mio professore del liceo. Ma come si fa a non cedere alla dimensione del «Caro diario». Anche perché, la dimensione del «Caro diario» è quella oggettiva, attualmente. 

Caro diario, oggi è lunedì 16 marzo 2020. Anno bisestile. Sono a casa, da giorni. Tutti gli italiani sono a casa, reclusi. Possiamo uscire solo per poche necessità e c’è bisogno di un’autocertificazione per non incorrere in un’accusa penale. Sono a casa, reclusa, ma sto bene. Tutto è sospeso. È un limbo che ci accomuna. Io non ho paura. Forse dovrei averne. Il pericolo esiste, ma ogni cosa appare surreale. Non so perché sto bene. La sensazione del sublime mi pervade. La storia sta accadendo. Come in Melancholia, una lucida consapevolezza mi dà quasi serenità. Sono a casa, reclusa, da giorni. La notte è piena di sogni. Ogni giorno è illuminato. #ACASATUTTOBENE – E poi? Boh.

Alessandra De Bianchi, Firenze

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Una telefonata in più. Stare a casa senza vita sociale per giorni, anzi, settimane. Aspettare quotidianamente il bollettino della protezione civile per conoscere il numero dei nuovi contagiati, dei guariti e dei morti. Dover lavorare forzatamente da casa, accontentandoci di quello che abbiamo, scoprendone per la prima volta l’immenso valore. Questa situazione di crisi può aiutarci a riorganizzare le priorità della nostra vita, riflettendo su cosa conta di più. Gli affetti, ad esempio, vengono fuori proprio nei momenti di solitudine. Una telefonata o un messaggio serviranno a sentirci meno soli, a preoccuparci di chi è davvero importante per noi, a riaccendere legami sopiti o trascurati per via dello stress quotidiano. E il valore del tempo aumenta. Desideriamo solo ottimizzarlo, una volta che tutto questo finirà. Capiamo che non possiamo sprecarlo, perché la vita e la morte non dipendono da noi.

Adelaide De Martino, Milano

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Il rito del balcone. L’Italia chiamò: e gli italiani risposero, con eccezioni fortunatamente sempre più rare, alla necessità di porre un freno al contagio dilagante chiudendosi in casa e limitando gli spostamenti allo strettissimo indispensabile. L’homo italicus, tuttavia, è notoriamente animale sociale e socievole: da qualche giorno si ripete, ciclicamente, l’appuntamento sui balconi. Gli italiani cantano, ballano, si salutano, applaudono: alle 9 c’è l’Inno Nazionale, alle 18 canti e danze, alle 21 la danza di piccole lucciole elettriche. Un programma ufficioso che si diffonde di casa in casa attraverso i social media e le chat di Whatsapp, un vero e proprio rituale collettivo per recuperare, in qualche modo, quella distanza fisica, quell’assenza di contatto che sembra mancarci, ogni giorno un po’ di più di quello precedente. Nel rito del balcone si esaudisce il desiderio di quella dimensione emotiva condivisa, essenziale da sempre all’umanità. Nel rito del balcone si sublimano paure e angosce, si leniscono malumori e frustrazioni, si rinsaldano il senso di comunità e di appartenenza reciproca, fondamentali per affrontare questa battaglia contro quei minuscoli, impercettibili esseri invisibili che hanno così rapidamente messo in crisi il nostro senso di onnipotenza e di dominio sulla realtà.

Cristina Cassese, Roma