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Antonioni, l’innominato di Blow-up e il gioco dell’arte

Maestro nel raccontare per “sole” immagini, Antonioni nel suo capolavoro del 1966, Blow up, mette in scena situazioni e personalità complesse, che si prestano a molte derive, spesso critiche, consegnando allo spettatore l’ultima interpretazione.

Le pellicole di Antonioni sono pressoché caratterizzate dall’assenza di una trama: è l’immagine stessa (non il dialogo o il montaggio) a diventare unica portatrice del significato profondo del film, come avviene in Blow-up (1966), dove è raccontata – frame dopo frame – la presunta scoperta di un omicidio da parte di un fotografo di moda londinese.

Il personaggio principale, senza nome per tutta la durata del film, è caratterizzato da una forte personalità. Non risparmia atteggiamenti altezzosi nei riguardi dell’ambiente a cui appartiene: spesso taciturno, quando parla si esprime con un’immancabile antipatia e, soprattutto, con vana passione, desidera ad ogni costo oggetti e persone, in modo indifferente, come se avessero lo stesso valore. Tutti i personaggi con cui interagisce gli permettono di essere maleducato e rude, fintanto che questa ‘sottomissione’ è funzionale per il raggiungimento dei loro obiettivi personali. Ci ritroviamo così a seguirlo nella sua quotidianità mentre si muove all’interno di un mondo di finzioni dal quale è annoiato e insieme vincolato.

Il fotografo di Antonioni, nel tempo libero, passeggia nel parco e segretamente spia le passioni altrui: questo istinto voyeuristico non è sufficiente per renderlo consapevole di quello che sta accadendo tra i due personaggi fotografati.

Siamo coinvolti nelle vicende di un uomo qualunque (forse per questo senza nome) che, di fronte a un possibile omicidio, fa di tutto per cogliere la verità, sebbene sia incapace anche solo di intuirla; non è tutto. Antonioni mostra un uomo che smania cercando di comprendere il mondo e l’umanità e, allo stesso tempo, continua ad aggrapparsi miseramente alla materialità più superflua. Per un attimo si illude che, grazie al suo scatto, potrebbe aver salvato una vita: questo lo renderebbe finalmente parte della comunità di uomini ma solo fin quando non scopre che in realtà l’omicidio è avvenuto a prescindere dalla sua macchina fotografica.

L’insistente critica di Antonioni è rivolta non solo al Fotografo ma all’uomo contemporaneo comune, idolatra di brandelli di oggetti apparentemente essenziali. Secondo la concezione del regista, gli uomini hanno conservato la rigida moralità dell’era primitiva che li ha resi incapaci di adattarsi al mondo moderno, notevolmente più complesso. Gli individui contemporanei dipinti da Antonioni non sono in grado di comprendere il valore di ciò che li circonda e per questo si abituano ad accumulare oggetti nel tentativo di soddisfare i propri bisogni.

Alla fine, il protagonista evidentemente si rende conto che non potrà mai scoprire il movente del crimine e, da spettatore di una partita di tennis mimata, probabilmente realizza che, se fingesse di non aver mai scattato la foto, sarebbe esattamente come se non fosse mai successo. Di nuovo potrà essere parte della comunità, stavolta reale, di uomini che, a volte ciechi e a volte omertosi, si convincono che non c’è una grande differenza tra verità e menzogna, proprio come una partita di tennis con o senza pallina.

A margine di questa feroce rappresentazione del vuoto spirituale dell’uomo, Antonioni sembra regalarci una scena di incontestabile gloria, per cui possiamo almeno in parte redimerci: l’attimo più puro in cui  l’uomo contempla la propria arte, con la speranza che possa riempire le proprie mancanze.

Caterina Guadagno 

About the author

Caterina Guadagno

Dal 1996 in giro per l’Italia, mi (ri)trovo a Milano per studiare Economia e Gestione dei Beni Culturali e dello Spettacolo. Appassionata di cinema e arte contemporanea e sognatrice senza scrupoli, da grande vorrei diventare una curatrice al Lacma.

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