La transitorietà dell’esistenza umana in una serie di scatti che immortalano la solitudine e le suggestioni dei paesaggi attraversati dal centesimo meridiano. A Bologna fino al 30 settembre.
Di fronte ad un’industrializzazione che sembra inarrestabile e che vede il mondo occidentale muoversi in una folle corsa di ritmi febbrili ed alienanti, dove le uniche leggi sono quelle stabilite dal mercato, totalmente dimentiche delle necessità dell’ambiente, lo sguardo del fotografo statunitense Andrew Moore (Old Greenwich, 1957) sceglie di posarsi invece su dei luoghi remoti e silenziosi che, pur facendo parte dell’Occidente, sembrano da esso dimenticati.
Nelle sale di Spazio Damiani, a Bologna, troviamo esposte una ventina di opere tratte dal progetto Dirt Meridian, a cui Moore ha dedicato circa una decina di anni, dal 2005 al 2014.
Muovendosi lungo le grandi pianure americane che circondano il centesimo meridiano, immaginaria linea di demarcazione tra il florido Est e l’arido Ovest, Moore ci offre un inedito spaccato della cosiddetta Flyover Country, un’area caratterizzata da orizzonti sconfinati e paesaggi solitari, così lontani dal fragore di metropoli come New York o Los Angeles, eppure carichi di una solitudine capace di affascinare e di porre numerosi interrogativi.
All’ingresso dello spazio espositivo bolognese il nostro sguardo viene subito rapito da Approaching Dust Storm, un’istantanea che coglie l’arrivo di una tempesta di sabbia, al calar della sera, su una desolata pianura del Texas. Gli unici barlumi di una presenza umana sono l’insegna pubblicitaria sulla destra e dei cavi dell’elettricità sulla sinistra, che sembrano per essere spazzati via da un soffio primigenio portato da quei densi nuvoloni.
Nell’universo catturato da Moore le architetture con fatica erette dall’uomo non sono infatti che scheletri, relitti dimenticati in un angolo di mondo che lentamente fanno ritorno al ventre della Terra, rivelandosi in tutta la loro transitoria essenza.
Non c’è però angoscia nello sguardo del fotografo che, grazie ad un’apposita macchina digitale da lui ideata, si posa sul paesaggio da una particolare prospettiva a volo di uccello, come un occhio trascendente che si schiude, avvolgendo tutto di vivida luce.
E’ forse proprio la luce il segreto degli scatti di Moore, una luce intensa, che sazia e rassicura, una luce che accoglie, anche dove solo il vuoto sopravvive.
Accanto a questa serie di fotografie ne troviamo altre, come Simon’s Schoolhouse Museum, che all’opposto ritraggono il disperato tentativo dell’essere umano di difendersi da questa sensazione di oblio, colmandola con file interminabili di oggetti, dietro cui barricarsi, dietro cui nascondersi lasciandosi travolgere da un quotidiano sempre più frenetico, con l’illusione di allontanare così quel vuoto che invece, sembra suggerirci Moore, è sempre lì, immobile, in attesa. Unica realtà veramente imperitura.
Allison Bersani
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