Riflessi da un luogo invisibile è il titolo della personale di Andrea Santarlasci (Pisa, 1964), che fino al 23 gennaio 2016 è ospitata dalla Galleria Passaggi arte contemporanea di Pisa.
La mostra, a cura di Arabella Natalini, continua un percorso complesso e mai interrotto che l’artista pisano ha iniziato già dalla fine degli anni Ottanta, attraverso cui approfondisce le relazioni tra naturale e artificiale, spazio privato e ambiente esterno, tra riflessione individuale e dimensione collettiva, fino alle suggestioni visive dello sdoppiamento e della riflessione, dell’ombra e del tempo, in un costante equilibrio tra emozionalità e concettualità, tra razionalità e sensibilità. Fulcro della sua ricerca artistica è la sua approfondita meditazione sul concetto di luogo e di spazio, messo in risalto dalla relazione tra l’uomo e il suo ambiente. Temi questi, caratterizzati spesso da un contrappunto o una fusione tra materialità e virtualità, dati da un profondo lavoro mentale, con risultati davvero poetici e di grande incisività, spesso davvero raffinatissimi.
La sua ricerca ci porta spesso, come accade anche con questa mostra, alla scoperta di luoghi poco visibili e poco conosciuti che evocano dimensioni simboliche, atmosfere sospese, che rimandano a un altrove, come spiega l’artista stesso: «…è il luogo che suggerisce, che in qualche modo genera l’opera. Il luogo, per potersi definire come tale, e non come spazio aspecifico e astratto, deve, a mio avviso, contenere o alludere a un significato, a un’immagine, a un rimando che evochi e allo stesso tempo ci rinvii a un altrove, a un qualcosa che non è di questo luogo, che ci perviene da un altro contesto, ma allo stesso tempo appartiene al luogo stesso, intimamente custodito dentro di sé. Spesso proprio quel che sembra estraneo, quell’estraneità è ciò che identifica il luogo nella sua particolarità, solo a questo punto è possibile, per me, parlare di quel luogo e non di un altro. È questo l’aspetto più interessante, questa la caratteristica che ci fa comprendere la profonda specificità del luogo».
Le opere presentate in mostra sono dunque legate a un progetto più ampio, che riguarda un sito particolare nel cuore di Pisa, dove il fiume Auser, l’attuale Serchio, si unisce all’Arno, una confluenza che nel tempo ha trasformato il territorio. Quel luogo, che non esiste più, viene dunque evocato all’interno della galleria, spazio che reinterpreta rileggendo i tratti significativi dell’essenza del luogo e collegando i lavori esposti attraverso un processo mentale preciso, il quale determina una nuova creazione naturale e tecnologica insieme, in un gioco severo e allo stesso tempo cristallino con la Natura, che inevitabilmente cattura e affascina lo spettatore. L’installazione con le tavole di recupero, il ramo raccolto sulla foce del Serchio trasformato in scultura, affiancato da una serie di piccole foto di paesaggi fluviali e da un’opera pittorica che suggerisce possibili antichi percorsi del fiume, infine un dittico di light box, recante una scritta “fluida”, al cui interno le lettere che compongono la parola Auser sono impercettibilmente evidenziate, rielabora meditazioni filosofiche sulla permanenza e il divenire, aprendo a una riflessione sull’esistenza umana. Quest’opera, in particolare, si riferisce a un progetto precedente che ipotizza, nel preciso punto di confluenza dei due fiumi, la collocazione della scritta luminosa, tra il tessuto urbano e la riva naturale dell’Arno.
Come dichiara l’artista «Un intervento che ci invita ad attivare una rammemorazione di un sito ormai inesistente, e attraverso la sua collocazione nell’attuale paesaggio, ci prospetta l’incontro di due tempi diversi e simultanei, come in una eterocronia». Un’opera che rimanda allo scorrere del tempo e alle sue diverse percezioni. «L’acqua del fiume diviene quella sostanza che ci permette di contemplare e immaginare il tempo. L’acqua, materia liquida e dissolvente, illusoria e riflettente, è quell’elemento che può essere sempre comparato ad altri elementi… L’acqua può scavare la terra nelle sue profondità misteriose, può creare, deviare e dissolvere percorsi sotterranei, capaci di lasciare segni e tracce dei loro antichi passaggi».
Il lavoro di Santarlasci a volte enigmatico, non d’immediata lettura, ma profondamente evocativo, contemplativo, simbolico e puro, vuole dare lo spunto per una riflessione sulla condizione di spaesamento e stupore dell’uomo contemporaneo, nel dilatarsi dei confini di una realtà così complessa e contraddittoria.
Fin dai primi periodi Santarlasci ama mescolare diversi media e fare uso di diverse tecniche, dal disegno, alla scultura, dalla fotografia, a lavori tridimensionali e a installazioni, nei quali utilizzava una grande quantità di materiali diversi (dal vetro allo specchio, dal legno al metallo), instaurando una stretta interazione tra ambiente, luce, colore e suono. Lavori molto complessi e approfonditi, dati da lunghi studi e un meticoloso processo artistico lirico e matematico insieme. L’artista, che ha realizzato installazioni in ambienti di archeologia industriale, luoghi storici e spazi pubblici, anche fuori dagli ambiti convenzionali e tradizionalmente deputati alle esposizioni d’arte, spesso inseriti nel vivo tessuto urbano o in contesti naturali, ha nel suo fare artistico unico, coraggioso e del tutto personale, qualcosa di nuovo e catartico, che cattura la nostra attenzione nel cercare di decifrare insieme a lui una realtà che si trasforma sotto i nostri occhi.
L’artista si è reso protagonista nel tempo di alcuni interventi artistici direi straordinari, tra i quali mi preme ricordare: Tutto un giorno, presso l’ex-lanificio Michelagnoli a Prato (2001), dove ha proiettato immagini di cielo durante lo scorrere del giorno, dall’alba alla notte, oppure Un po’ di finito infinito nel Chiostro di Villa Vogel a Firenze (2007), dove ha creato all’interno di un chiostro uno specchio azzurro, da cui affiorano punti luminosi di una galassia immaginaria che duplica quella reale visibile in cielo, o ancora quando ha illuminato internamente l’antica Torre campanaria di San Michele a Pisa, giocando con le tonalità cangianti del cielo in La luce che resta (2013).
Un flusso di creatività ininterrotto e sempre in ascesa quello di Andrea Santarlasci, che merita senza dubbio tutta la nostra attenzione e la nostra curiosità, per seguirlo nel suo percorso quasi leggendario tra artificio e natura, che lui stesso in ogni sua istallazione ci traduce e ci indica, e che non delude mai.
Cecilia Barbieri
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