Ancora una volta, nella suggestiva cornice del teatro Il Funaro di Pistoia, la poesia esplode sugli spettatori, lasciando incollati addosso brandelli di forti emozioni.
A spettacolo iniziato, vige un insolito silenzio, una luce soffusa si pioggia su quel palcoscenico intimo, una scrivania, una macchina da scrivere e un violoncello vicino ad una poltroncina (fotografia di Gonzalo Jerez). Occhi cavi come uno scrigno dove cercare l’anima, nasi adunchi, volti erranti, buffi, impassibili: maschere (di Garbiñe Insausti). Dentro quegli occhi, subito sgorgano molteplici specchi, riflessi di noi stessi in cerca di quell’estasi e di quel tormento dell’esistenza umana.
Cosa possono fare delle maschere?
Qualcosa di meravigliosamente devastante.
A ricordarcelo sono i berlinesi della Familie Floz, in Italia pensiamo ai fiorentini Zaches o al giovane duo torinese Dispensa Barzotti. Al Funaro di Pistoia, con uno spettacolo senza confini (in otto anni ha percorso più di 30 paesi in tutto il mondo) magistralmente a ricordarcelo sono le maschere del collettivo Kulunka che con una poesia immensa, ci parlano di “Andrè e Dorine”. Tutto nasce da un linguaggio non verbale: nessuna parola, ma solo “espressioni di maschere” fisse che parlano ad ogni ticchettio della macchina da scrivere di Andrè. Cresce la tensione emotiva sin dall’inizio, lenta, dolce, incontenibile. Ci mostrano la vita di una coppia di anziani nella loro quotidianità, fatta di piccole e grandi cose, il figlio ormai adulto che non vive più con loro, una famiglia come tante, con le piccole incomprensioni, le lotte domestiche, i capricci che nel tempo sono diventati quasi elemento essenziale di comunicazione, segni caratteristici del rapporto di coppia, piccole manie che sono divenute la forma e la sostanza della propria casa, manie che se venissero a mancare, romperebbero quell’equilibro costruito come pilastro di quella sopravvivenza. Lui, è seduto alla sua scrivania, scrive ininterrottamente, guai a chi prova a dissuaderlo o distrarlo. Lei, oscilla l’archetto del suo violoncello. Questa la prima battaglia del giorno, di pomeriggi spesi a prevaricarsi l’uno sull’altro. Lei suona, lui scrive. Lei il primo lettore del marito che non pubblica niente senza il consenso della moglie. Lui che la guarda nascondendosi dietro i tasti e che le regalerà il suo primo violoncello.
Un racconto allegorico dalla crescita fino alla morte. Non una fine ed un inizio ma, un “durante”, che spesso molti si ostinano a non vivere inseguendo il futuro, rimandando a data da destinarsi, evitando il tempo, dimenticando che passa veloce, ignorando la caducità del nostro esserci, in affanno continuo tra paura e sete di vivere. Un durante che ci ricorda di vivere a pieno, con il suo mistero da accogliere e tutelare, da scrutare zuppi di curiosità. Tutto sembra scivolare via tranquillo, violoncello e parole scritte in un’armonia superficiale e leggermente noiosa, ore che sembrano scorrere uguali alle altre. E proprio quando ci si culla su quelle abitudini che si arriva ad odiare, ci si accorge che quelle, in verità, fanno parte di quei giorni di felicità in una vita fatta di niente di speciale. Andrè e Dorine non smettono di amarsi eppure qualcosa li ha resi distratti. Dei fili li reggono, come burattini: legati al loro destino, sospesi su un tappeto cui cercano di non perdere mai, la libertà, delle loro passioni, la libertà di sbagliare, correggersi e sbagliare ancora, donare amore, provarci, cercarlo, chiederlo, urlarlo, nasconderlo tra parole scritte e la melodia di una corda di viola. Cadere e rialzarsi, con tutto il mondo intorno, non solo noi ma, l’altro noi con la quale, buffamente, si fa fatica ad imparare a condividere.
Perché poi all’improvviso, dietro l’angolo c’è ciò che tutto trasforma, irrimediabilmente: la malattia.
Silenziosa non bussa nemmeno il campanello, che Andrè sempre ignorava mentre scriveva, aspettando fosse la moglie ogni volta a dover rispondere. Entra in casa senza chiedere permesso, annebbia e divora la mente e pian piano si prende tutto. E la malattia (l’Alzheimer), colpirà Dorine, una malattia che annulla i ricordi, cancella le fotografie in cornice, rende brandelli il passato, sfocato il presente, fa diventare tutto vuoto. Restano solo fotogrammi sparsi tra la vecchiaia, raccontati pigiando il tasto rewind di un mangianastri. Qualcosa che con leggerezza e delicatezza ci raccontano i Kolunka.
José Dault, Garbiñe Insaustie Edu Cárcamoriescono a raccontare al pubblico attraverso i loro corpi, attraverso le maschere che indossano parole astratte delle emozioni, temi scomodi, pesanti come macigni. La vita e la morte, la malattia, la perdita di ciò e di chi si ama, il contorto equilibrio della famiglia, l’amore, la memoria che tesse l’esistenza di ognuno.
La bellezza invade il palcoscenico che si trasforma in un cinematografo, ricordi proiettati in una stanza, successioni di immagini fotografiche scorrono sulla pellicola della loro vita, il “com’eravamo” della coppia, il loro primo incontro, il loro primo bacio, i giorni delle conquiste e delle lotte giovanili, i sogni inseguiti e realizzati, le speranze, la loro prima casa, il loro primo e unico figlio. Una stanza nella stanza, pareti con cornici aperte, dentro quell’amore nato, sbocciato e vissuto. La musica di Yayo Cáceres accompagna il tutto, momenti di ironia, nostalgia, le note di una fisarmonica che gioca con la memoria, l’assenza e la presenza… con i calzini sgualciti che Dorine indossa sulle mani, e l’amorevole pazienza di Andrè che le infila il cappotto al contrario pur di non perderla. La macchina da scrivere e il violoncello sono testimoni di tutto il loro amore, Andrè si ritroverà solo ma… “Non è mai notte quando vedo il tuo volto; perciò ora a me non sembra che sia notte, né che il bosco sia spopolato e solitario, perché per me tu sei il mondo intero; chi potrà dunque dire che io sono solo se il mondo è qui a guardarmi?” (W.Shakespeare).
Ci si chiede come sia possibile che senza movimento alcuno di muscoli facciali, senza parole pronunciate, tutto abbia voce attraverso il corpo, semplici gesti. A fine spettacolo il silenzio è ancora più assordante, malinconia e lacrime sciolgono le “maschere” del pubblico, ignari e denudati delle loro paure, la paura del tempo che fulmineo, attraversa il ciclo dell’esistenza. Saranno quelle stesse lacrime versate ascoltando Andrè e Dorine, la loro storia d’amore, a suggerire in realtà di provare a vincere su quel tempo, guidati dall’istinto, dall’amore. Scontrarsi e incontrarsi continuamente con i nostri giorni, con chi amiamo e con ciò che desideriamo… scrivere poesie e suonare violoncelli. Intonare canti, ridere e scattare fotografie, incollarle in un album, riempire le pareti della propria stanza. Nessuno, dopo aver visto questo spettacolo, tornerà a casa con le spalle dritte e la sua maschera in volto. Camminerà in silenzio gettandola ai suoi piedi, sarà invaso per giorni e giorni da mille domande, scriverà sul suo taccuino i propri desideri rinchiusi nel cassetto, tutte le cose lasciate a metà e quelle date per scontato. E aperta la porta di casa, si abbraccerà al suo riflesso e abbraccerà chi ama, promettendosi di farlo finché ne avrà memoria.
Grazie ad Andrè e Dorine, uno spettacolo da vedere almeno una volta nella propria vita.
Maria Di Pietro
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