Il bisogno di classificare – ovvero ricondurre una varietà di oggetti a un certo numero di tipi gerarchicamente ordinati per riuscire ad afferrare e comprendere il mondo – accompagna quei momenti della storia in cui si percepisce con maggiore intensità una crisi della conoscenza; anche se oggi, nell’era dell’informazione totale, il rinnovato interesse per la catalogazione e l’archiviazione nasce forse dall’esigenza di orientarsi in un eccesso di conoscenza tale da lasciarci disorientati.
Cristina Baldacci, Archivi impossibili. Un’ossessione dell’arte contemporanea
99objects è una collana editoriale lanciata nel 2017 dai PetriPaselli (Matteo Petri, 1981 – Luciano Paselli, 1983), dedicata a specifici oggetti obsoleti: posaceneri, portachiavi, trofei, distintivi, ceramiche e addobbi natalizi costituiscono i soggetti delle sei pubblicazioni fino a oggi realizzate, così come una parte della vasta collezione del duo bolognese e la loro cifra artistica.
La raccolta di oggetti popolari estinti o in via di estinzione, la loro esposizione e la loro più recente pubblicazione, stimolano spontaneamente una serie di riflessioni: l’azione del tempo e della memoria, il significato della loro ricostruzione in questo tempo, i rapporti tra oggetto e immagine, la fenomenologia del collezionismo e le pratiche di archiviazione rispetto al contesto socio-economico.
Nonostante la sua apparente innocenza, è in effetti piuttosto difficile limitare questa operazione ricorsiva – di ricerca, riesumazione dai mercatini di memorie collettive, selezione, conservazione, ridistribuzione nel mondo (che li aveva condannati a simulacri permanenti) di oggetti inutili, riabilitati in immagini “dall’eterno splendore” (PetriPaselli, 2017) – ad una mera pratica estetica. Occorre però innanzi tutto scagionare gli artisti da faziose premeditazioni, e interpretarli piuttosto come ha fatto Charles Simic nei confronti di Joseph Cornell: “Cornell sapeva quello che stava facendo? Sì, ma in prevalenza no. Chi può davvero saperlo? […] Le idee sull’arte vennero dopo, se mai vennero chiaramente. E come avrebbe potuto? La sua è una pratica divinatoria” (Simic, 1992: 58). Era tale letteralmente rispetto alle sue “scatole divinatorie” in cui combinava come è noto, oggetti eterogenei e trouvés, ma in senso più ampio, non lo è forse ogni processo artistico in quanto “opera aperta” (Eco, 1962) che sfugge al controllo egemonico dei significati fino a non esserne più del tutto responsabile?
Il gesto creativo dei PetriPaselli è in larga parte delegato a quelli di selezione, isolamento, decontestualizzazione.

Se l’ideologia del white cube è stata progressivamente affiancata da un’antitetica poetica dell’accumulo corrispondente al “secchio della spazzatura capitalista” (Hirschhorn, 2000) riscattato da un “impulso archivistico” (Foster, 2004), i PetriPaselli avanzano e confermano questo Zeitgeist, struggentemente maniacale:
Un evento è registrato soltanto grazie a un altro che lo ricodifica; arriviamo ad essere ciò che siamo solo attraverso azioni differite (Nachtraeglichkeit). […] L’avanguardia storica e le neoavanguardie sono costituite in maniera analoga, come un continuo processo di spinte in avanti e indietro, un sistema complesso di futuri anticipati e di passati ricostruiti, in breve, in un’azione differita che rovescia ogni semplice schema di prima e dopo, causa ed effetto, origine e ripetizione (Foster, 1996: 39).
L’azione differita dei PetriPaselli corrisponde al loro gusto old fashioned, anacronistico, e per questo decisamente contemporaneo (Agamben, 2008) che definisce il presente ricostruendo il passato, che era un’anticipazione di questo futuro.
Se la Pop Art in quanto processo di transustanziazione invertito, da oggetto a immagine seriale, sembra essere il referente più letterale, risuona parimenti nei 99objects l’estetica kitsch/patetica degli Eighties che amplifica i riferimenti tra cultura alta e bassa, arte e quotidianità, sistema economico e sociale (corrispondendo sincronicamente ai visual e cultural studies). Lo sguardo à rebours degli artisti evoca però insospettatamente e simultaneamente anche le politiche dell’oggetto anti amorali (Dada, Nouveau Réalisme, Fluxus); facendole comprendere e costituendole, attraverso un raffinato stratagemma allopatico e naïf, autentico quanto inconsapevole, cavallo di Troia. Una versione diversamente smaterializzata del “museo dell’innocenza, un luogo per vivere nel ricordo dei defunti” (Pamuk, 2008: 543), una collezione di oggetti-feticcio, simbolo delle relazioni affettive e immaginarie tra persone e cose. Un’innocenza che Pasolini avrebbe però criticato:
L’innocenza è una colpa, l’innocenza è una colpa, lo capisci? E gli innocenti saranno condannati, perché non hanno più diritto di esserlo. Io non posso più perdonare chi passa con lo sguardo felice dell’innocente tra le ingiustizie e le guerre, tra gli orrori e il sangue (Pasolini, 2001: 1095).

La smaterializzazione degli oggetti nei 99objects corrisponde alla perdita di una dimensione in fase di stampa ma ad un guadagno in termini di prolificazione di cloni. Così, se queste cose “ci sopravvivranno” (Serra, 2017), lo faranno anche le loro immagini e le loro riproduzioni: un armamentario mediale dispiegato contro il nichilismo del tempo. La fotografia, medium che permette questa trasformazione, se da una parte cattura e ferma il tempo, dall’altra ne decreta la sua impermanenza, come quella delle cose. E sta dunque all’oggetto come un fantasma. Considerando la storia dell’arte come “una storia di fantasmi per adulti” (Warburg, 1932), secondo Mitchell, parlare oggi in termini “fantasmatici dell’immagine” può risultare anacronistico o idealistico, in relazione all’ossessione della materialità tipica della nostra epoca: “Il feticismo delle merci segna il momento esatto in cui il carattere spettrale e fantasmatico delle immagini sembra raccogliersi come un’aureola intorno al corpo fisico di un oggetto” (Mitchell, 1987: 41). Ecco un altro rito di passaggio subito dagli oggetti in 99objects: divengono le proprie aureole, liberati dalla materia dei loro corpi, esaltati a distintivi di pura santità. Inseparabili dal loro referente, ne decretano tuttavia la morte ma anche il loro essere stati (Barthes, 1980).
La stampa contribuisce d’altronde alla costituzione di “un museo immaginario” (Malraux, 1947) dell’obsolescenza e del rimosso. Un rimosso che torna poiché inesausto, “insepolto”, come un “revenant” (Didi-Huberman, 2000): “La distruzione di una specie infatti non equivale necessariamente alla distruzione della sua immagine, che anzi la fa resuscitare in forma di traccia fossile. I fossili sono testimonianze che si presentano tanto come oggetti materiali quanto come pictures” (Mitchell, 1987: 45). I 99objects sono esattamente dei fossili, né oggetti né immagini in senso assoluto, ma schizofrenicamente e parzialmente, entrambi. Realizzano una simultaneità che è anche temporalmente “dialettica”, in quanto “immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione” (Benjamin, 1982: 516). Ieri e oggi, oggetti massimamente celebrativi (posaceneri-souvenir, trofei, distintivi, ceramiche-motto, addobbi natalizi) tre volte inutili: lo erano per loro natura in origine, poi rimossi dalla produzione e dal mercato, eventualmente non più associabili neppure al patrimonio immateriale a cui afferivano. Reliquie di una ritualità in sé agonizzante (Han, 2020).

Quella dei PetriPaselli, è dunque una poetica riabilitante, del custodire (farsi custode, proteggere, aver cura, vigilare, preservare, fare tesoro, mantenere). Un soft power esercitato contro la religione materialista, quell’eraser head che anziché assommare, come farebbe se assecondasse devotamente i dettami del proprio culto, impone invece al mondo una data di scadenza sempre più breve, convincendosi che il rimosso non lasci tracce.
Cosa c’è tra le distruzioni e le sopravvivenze? Ci sono gli atti di resistenza. Una lotta quotidiana per opporsi all’ingiustizia, o, almeno, perché sia resa giustizia. Pasolini nomina luce l’elemento vitale di questi atti resistenti: elemento poetico poiché “la poesia è nella vita”, elemento politico poiché la vita stessa si sviluppa, respira, muta e anche muore politicamente (Didi-Huberman, 2014: 23).
Un mondo (socialmente) distanziato dalle luci abbaglianti dei riflettori (Pasolini, 1940-1954), sterminato, ma sopravvissuto nella sua “vita postuma” (Agamben, 1975) di immagini metonimiche, raccolte in un archivio dunque imperituro. In queste, si specchia il segreto delle nostre vite.
Che sia il Medioevo fantastico raccontato da Jurgis Baktrušaitis o l’”antirinascimento” di Eugenio Battisti, esiste già da allora un mondo dentro il mondo, un’eterogeneità dentro una presunta omogeneità, una incongruità che apre ad altre possibilità e percorsi (Grazioli, 2012: 13).
Una serie, quella dei 99objects tesa coerentemente all’infinito. Aizzatrice di “pratiche discorsive” (Foucault, 1969).
Veronica Caciolli
In copertina: PetriPaselli, “Souvenir Ashtrays”, pagina interna, in 99objects, Issue 1, Faenza 2017
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