Al Festival delle Scienze di Roma c’eravamo anche noi. Un grande successo per questa undicesima edizione svoltasi tra il 20 e il 22 maggio scorso, a testimonianza del vivacissimo desiderio di conoscenza che anima la gente. Un’ulteriore prova, se mai ce ne fosse bisogno, della miopia di quei fornitori di offerta culturale (o pseudo-tale) che si lasciano fuorviare dal presupposto mai dimostrato che la gente cerca solo intrattenimento.
Ricorre il centenario della pubblicazione della teoria della relatività generale, uno dei capolavori con i quali la mente sovrumana di Albert Einstein ha cambiato per sempre la scienza fisica e, per molti aspetti, anche la nostra vita quotidiana. La ricorrenza diventa il filo conduttore del Festival. Si parla dunque di relatività, di spazio-tempo, di fisica quantistica con i suoi paradossi, degli esperimenti e delle scoperte di fronte ai quali impallidisce anche la fantascienza più estrema (ad esempio nelle scorse settimane si è parlato molto della rilevazione delle onde gravitazionali: sapevate che il movimento della struttura dello spazio che è stato registrato dagli strumenti aveva un’ampiezza pari ad un millesimo del diametro di un protone?)
Lo studioso Seth Lloyd si è soffermato sulle problematiche e sulle potenzialità poste dal proliferare delle informazioni disponibili. Il numero delle informazioni prodotte dal genere umano e rilevate dai dispositivi elettronici è talmente elevato, che in pochi anni siamo passati dal problema di raccoglierle al problema di selezionarne la (minima) parte significativa e scartarne la grande maggioranza, che è puro rumore senza alcuna utilità.
Ma l’informazione non è solo conoscenza: è anche un mezzo utilizzato per produrre altra conoscenza. I computer utilizzano informazioni per eseguire i software: i loro circuiti contengono numerosissimi “interruttori” di volta in volta selezionati su “spento” (o “zero”) o “acceso (o “uno”); ad ogni “0” e “1” è associata un’istruzione specifica, cosicché una serie di 0 e 1 si traduce in una sequenza di istruzioni che la macchina è in grado di eseguire. La prossima frontiera è rappresentata dai computer quantistici, che saranno capaci di sfruttare le proprietà paradossali dell’infinitamente piccolo: grazie all’indeterminazione codificata da Heisenberg, una particella come un elettrone può trovarsi contemporaneamente nello stato di “zero” e di “uno”, e questa informazione aggiuntiva potrà essere utilizzata per amplificare in maniera esponenziale la potenza e la velocità di elaborazione.
Più deludente l’intervento del filosofo britannico Ned Markosian sul concetto di tempo alla luce della teoria della relatività. Anche in occasione del Festival del 2015 fu un filosofo ad attrarsi le nostre maggiori critiche. In effetti la filosofia, da sempre dedita ad un’indagine fondata sull’esperienza, ha subito colpi durissimi dalle scienze fisiche, che hanno dimostrato la natura indeterminata della materia e di conseguenza l’inaffidabilità della nostra esperienza come veicolo di conoscenza del mondo. Oggi la filosofia sembra in cerca di scopo e di metodo, ed in questo guado a volte i filosofi si perdono.
Come nel caso di Ned Markosian, che ha disegnato una contrapposizione tra due possibili concezioni del tempo alla luce della teoria della relatività. Nella prima, che per Markosian prevale tra i fisici, il tempo è “statico”, cioè di fatto un’apparenza: visti nel tempo siamo come il corpo di un lombrico, suddiviso in segmenti dove ad ogni segmento corrisponde un tempo diverso; “io” in un determinato tempo non è lo stesso “io” in un altro tempo, perché non esiste il passare del tempo, bensì l’essere “collocato nel tempo” in un momento o in un altro. Nella seconda è invece fautore della seconda concezione, per cui il tempo è “dinamico” e di fatto corrispondente al tempo della nostra esperienza: il tempo passa effettivamente, “prima” e “dopo” sono realtà concrete, e c’è perfetta continuità tra “io” di ieri e “io” di oggi. Il problema è che Markosian non offre alcun sostegno scientifico alla propria visione, salvo accennare en passant che entrambe le concezioni del tempo sembrano compatibili con la relatività einsteiniana. La filosofia è ricerca della verità, non espressione di una preferenza, che è irrilevante rispetto alla produzione di nuova conoscenza. La filosofia che non si confronta con la scienza manca totalmente il suo obiettivo.
Lo studioso Vincenzo Barone ha offerto una ben più interessante riflessione sulla simmetria, un concetto che conosciamo intuitivamente (tutti capiamo che cosa si intende dicendo che il volto umano è simmetrico) ma che è stato codificato in matematica solo nel XIX secolo. La simmetria è una invarianza a seguito di una trasformazione (ad esempio, la corolla della margherita è simmetrica rispetto alla rotazione): un concetto bizzarro dunque, una combinazione di opposti. Einstein ha elevato questo concetto al rango di principio primo, una specie di “norma costituente” delle leggi fisiche, una regola che le altre norme devono rispettare: le leggi della fisica devono funzionare anche quando vengono operate specifiche trasformazioni, ad esempio quando cambia l’osservatore, o il tempo, o il luogo. Alla fine, la simmetria è il principio generale che garantisce la “stabilità” del tutto, che fa sì che la realtà sia quello che è, e che sia descrivibile con leggi che possiamo scoprire e interpretare. Questa nuova comprensione della simmetria ha consentito di codificare una serie di principi che agiscono da vincoli e quindi guidano la ricerca, offrendo così ai fisici un metodo di indagine molto potente e fruttuoso.
L’idea di simmetria ci affascina e ci attrae istintivamente, come dimostrano i ritrovamenti di manufatti preistorici scolpiti in forme simmetriche nonostante l’assenza di qualsiasi vantaggio funzionale. Essa porta con sé le idee di eleganza, semplicità e ordine, che ispirarono ad Einstein la famosa immagine dell’universo come “un cruciverba ben congegnato”.
Un cruciverba del quale, a poco a poco, stiamo svelando le regole.
Patrizia Genovesi
Add Comment