Una riflessione esistenziale sulla genitorialità, sull’infanzia, sull’avere figli… al di là (ma anche obbligata) dello scenario post-elezioni.
Tempi duri, inutile negarlo. Per qualsiasi partito abbiate votato, che il risultato elettorale sia stato per voi motivo di giubilo o di annichilimento, è innegabile un po’ per tutti la tentazione di richiamare in causa Cicerone con il suo O tempora, o mores!
Monito, lamentoso ma soprattutto polemico, verso una società e un tempo storico che sembra stiano andando, per l’ennesima volta, alla rovina.
Inutile stare ad elencare tutti gli accadimenti, italiani ed esteri, e tutte le motivazioni che avvalorano questa affermazione rabbiosamente disfattista.
Allora, non parliamo di politica, non insediamoci nel calderone delle polemiche di questi giorni. Parliamo piuttosto di bambini e della responsabilità dell’essere genitori oggi.
Nel 2008 ci fu un romanzo d’esordio che vinse i Premi Strega e Campiello opera prima, non un granché a livello letterario, ma valevole nel titolo e nel suo incipit empatico. Stiamo parlando di La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano.
Il romanzo vale appunto solo per il suo inizio in cui, come l’autore stesso disse in un’intervista, molti si riconoscono sul piano esperienziale.
Comincia, infatti, parlando dei tormenti di una scuola di sci per una bambina, Alice, la protagonista. La maggior parte dei lettori si è rivista in quell’ansia da calzamaglia pungente, da sveglia alle 7.30 di mattina anche in vacanza, da sci portati in spalla da corpicini minuscoli e oltretutto con scarponi ai piedi, da freddo che ti blocca la digestione e così via.
Allora, anche noi oggi raccontiamo una storia in cui molte donne attuali, bambine di ieri, potranno forse riconoscersi:
«C’era una volta una bambina che voleva tanto studiare danza. La più piccola di tre fratelli, a distanza abbastanza abissale. Nessuno nella sua famiglia era appassionato di balletti, ma lei aveva insistito talmente tanto che alla fine era riuscita ad ottenere l’iscrizione alla scuola più importante della sua cittadina. Fin dagli inizi delle elementari e per tutti i cinque anni, frequentò l’agognata classe di danza classica. Tra alti e bassi, andò abbastanza bene. Certo, ci fu da digerire il fatto di essere troppo alta per le prima file, il fatto di non avere la mamma amica della maestra che passava ore ad oziare con le altre mamme nella sala d’attesa, oppure il fatto di essere una delle poche a dover fare tutto da sola nello spogliatoio ecc. Comunque, due volte alla settimana aveva la sua lezione con le altre bambine “importanti” e questo le bastava. Almeno, le bastò finché non arrivò il fatidico giorno delle prove generali del saggio in quinta elementare. Sua madre, come ogni inizio estate, aveva deciso di tagliarle i capelli corti a caschetto, sebbene le insegnanti si raccomandassero sempre di tenere i capelli lunghi per gli chignon. Fin qui, un problema arginabile, magari con l’uso di un vecchio toupé. No, purtroppo la catastrofe non era evitabile e si esplicitò il pomeriggio delle prove più importanti, le prime sulle punte. Sua madre, che a differenza della maggior parte delle altre lavorava e non era una casalinga, aveva una improrogabile riunione a scuola per cui non sarebbe andata a pettinarla e prepararla, nonostante fosse stata avvertita della “preziosissima” presenza del fotografo di scena. Poco male, sperava la bambina, solamente una volta in più in cui doveva fare da sola nello spogliatoio. Ma il problema, per anni sopito e latente, scoppiò quando tutte furono pronte, con tutù bianco brillantinoso e scarpette rosa con la punta ai piedi. Anche lei era pronta e vestita, ma non aveva i capelli sistemati. D’altra parte, come avrebbe potuto da sola, a dieci anni (perché era un anno avanti a scuola), acconciare a chignon quel caschetto striminzito. Insomma, quando si ritrovò in fila con le altre, scoppiò il putiferio. Le mamme, con rispettive bambine al seguito, iniziarono a guardarla malissimo e a parlottare fra di loro. Lei non sapeva che fare, si sentiva come un alieno. La tensione raggiunse il parossismo quando una mamma, a voce alta, disse “E come si fa con questa?!” e un’altra, in risposta “Ah, non lo so davvero, di sicuro così ci rovina le foto”. La bambina, che già soffriva la situazione, appena sentì nettamente al di fuori del cicaleccio quelle frasi nei suoi confronti scoppiò in lacrime. E così, disperata, la trovò sua madre, che nel frattempo aveva terminato la riunione. Com’è andata a finire? La madre della bambina si arrabbiò, chiaramente, con le altre mamme. Dando loro, in sostanza, con l’eleganza e lo snobismo che la contraddistinguevano, delle oche giulive che non avevano nient’altro da fare nella vita che star dietro alla scuola di danza delle figlie. La bambina? La bambina l’anno seguente non s’iscrisse più a danza. Fece per tre anni tennis, come da tradizione familiare. Poi, si segnò nuovamente in un’altra scuola negli anni del liceo, quando non serviva più a nessuno la mamma negli spogliatoi. A diciott’anni smise completamente, si laureò e fece tutt’altro, finché non decise di diventare anche insegnante di Pilates per riscattare, in un certo senso, un’esperienza rimasta a metà. Prima però, in anticipo su molti, divenne madre a sua volta.»
Fine della storia. Perché la raccontiamo? Semplicemente perché, come dicevamo, sono tempi duri. Tempi in cui chi ha figli sente più che mai la responsabilità della genitorialità. Tempi in cui ci sono già, anche in Italia, classi e scuole multietniche eppure si grida ancora, terribilmente, contro gli immigrati e i loro bambini. Tempi in cui chi ha figli maschi sente tutto il peso della violenza sulle donne, della gravità di un problema che andrebbe sanato, ma soprattutto azzerato, fin dalla tenera età.
In tutto ciò, la storiella raccontata è soltanto un suggerimento sul cercare di dare ai bambini un sostrato che faccia parzialmente da scudo. In quanto genitori, siamo chiamati a dare loro le fondamenta, un orizzonte esistenziale di senso possibile in cui abbiano modo di sentirsi al sicuro, nonostante lo spaesamento che la vita e le epoche storiche riservano di volta in volta agli esseri umani in quanto tali.
Anche se vogliono fare judo, assecondateli, fate loro sentire che ci siete, che la base c’è, malgrado tutto. Non siate iperprotezionisti o, al contrario, troppo permissivi e vizianti. Responsabilizzateli, dando loro il buon esempio. Cercate di trovare quell’inafferrabile aurea mediocritas (per chiamare in causa, dal mondo latino, anche Orazio) tra la concessione di libertà e il rimanere al loro fianco sempre e comunque.
Perché, più che mai, avremmo bisogno di nuove generazioni che stiano meglio di come stiamo noi ora. Grazie.
Alessandra De Bianchi
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