C’è ancora qualcuno che riesce ad abbandonarsi del tutto, fisicamente e mentalmente, all’ozio?
Che cos’è l’ozio? Già è difficile rispondere a questa domanda.
Il termine deriva dal latino otium ed aveva nell’antichità un significato ben preciso, indicava cioè l’opposto del negotium (che ha in sé la negazione dell’ozio nec-otium).
L’otium era l’attività intellettuale, il momento dell’esistenza da dedicare alla cura della propria mente, dei propri affari spirituali, alla cultura, al pensiero e via dicendo. Al contrario, il negotium era l’attività pratica, da svolgere non nell’intimità, nel rapporto con se stessi, ma nella sfera esterna, si riferiva dunque alle occupazioni nella res publica.
Per questo i pensatori antichi – da Orazio a Cicerone, da Ovidio a Seneca –, anche se con declinazioni differenti, elogiavano l’ozio in quanto momento esistenziale che arricchisce lo spirito e ne può permettere l’innalzamento al di sopra delle mere faccende umane. Anche Bertrand Russell riprese nel suo saggio del 1935 – intitolato proprio Elogio dell’ozio – questo concetto di ozio come meditazione elevatrice, da contrapporre all’ansia di essere operativi e produttivi tipica dell’età moderna.
L’ozio era dunque il padre di tutte le virtù e non di tutti i vizi, come invece siamo soliti pensare in automatico riferendoci al popolare detto.
Alla fine del secondo decennio del secondo millennio, che significato ha l’ozio? Ma, soprattutto, esiste ancora?
Oggi, banalmente, se parliamo di ozio ci riferiamo all’assoluta inattività. Una sorta di noluntas, di atarassia e apatia positive e totalizzanti. In soldoni, crogiolarsi sul divano senza altre occupazioni che poltrire con una copertina e il pigiama di ciniglia addosso. Stare stravaccati su una sdraio in riva al mare. Mettere un telo su un prato e fermarsi lì, nella quiete della natura.
Il dolce far niente, insomma, come si suol dire.
Se questo è il significato di ozio ai nostri tempi, chi riesce veramente ancora a praticarlo o, meglio, ad abbandonarvisi?
Nell’impostazione della nostra società occidentale è pressoché impossibile oziare.
Magari, stiamo davvero sul divano, su una sdraio o su un prato. Di fatto, oziamo con il nostro corpo. Ma, anche in questi casi di ozio apparente, difficilmente il nostro cervello riesce realmente ad oziare, a donare riposo a se stesso.
Siamo sul divano, sulla sdraio o su un prato e la nostra mente cerca strenuamente occupazioni esterne. È arrivata una notifica di WhatsApp, vediamo chi scrive. Via, perché non dare una sbirciatina a Instagram e scrollare rapidamente le immagini dei contatti. Ohiohi, avevo messo o no in funzione la lavatrice, ché se non la stendo finché c’è il sole le cose non si asciugano. Quando torno a casa mi devo ricordare di pagare online la bolletta della luce, sarebbe stato meglio portarsi la chiavetta della banca dietro, così avrei potuto farlo subito e non dimenticarmene.
E potremmo andare avanti quasi all’infinito.
Non riusciamo quindi a non pensare e a non fare cose, soprattutto quelle che ci connettono con il resto del mondo umano, social in primis.
C’è di più, non solo non riusciamo a riposare la mente, ma molti di noi, se tentano di oziare, vengono pure attanagliati dal senso di colpa. Senza un’occupazione chiara e distinta ci sentiamo colpevolmente nullafacenti, non ci sembra di meritarlo, non ci sembra che sia giusto.
Perché? Entreremmo in un ginepraio difficile da districare, la colpa è troppo atavica. Fermiamoci alla domanda e chiediamoci come mai imperversi tanto l’horror vacui.
Alessandra De Bianchi
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